“No. Non prendo caffè, mai preso. Il profumo sì, mi piace, ma non il sapore”

A piazza Bellini c’è il sole, ed è lunedì. È solo uno di quei tipici giorni che Napoli estrapola fuori dal tempo reale; pertanto, c’è il sole, la giacca è posata sulla sedia e intorno c’è il silenzio delle persone che languono,come gatti sonnolenti e oziosi, ad occhi chiusi, i capelli sciolti e il volto rivolto verso l’alto, ad accogliere adoranti e sognanti il bacio dell’unico vero dio di Partenope. Il sole.

Lui, lo vedo da lontano, ha un passo ondeggiante, leggermente curvo; par dimentico del luogo in cui si trova, ma cammina con sicurezza, certo della terra che sta calpestando, sapendo quando schivare, quando spostare il piede a destra, quando a sinistra. Ha uno sguardo sfuggente, ma è vivo, vispo, verace, curioso e un po’ malinconico; c’è un fondo di quieta allegria nei suoi occhi scuri, incavati, forse stanchi. Per un attimo ritorna quel personaggio maledetto che avevo visto al centro della platea del Bellini, mentre fischiava e raccontava una storia che mi scavava dentro, a mani nude, e faceva male e bene insieme; per un attimo, mi ritrovo di nuovo al centro di quel colore rosso, dei palchetti vuoti, di vestiti stracciati e volti truccati, occhi neri, guanti sporchi, di amore venduto, sudato, recitato, offerto e regalato; di teatro e cultura, di cultura e vita, e amore, odio e malinconia e frustrazione, e Napoli. Napoli ovunque: nella sua voce, profondamente, radicata nelle viscere del suo cuore che canta.

Perché quando lui canta, che sia al centro di un teatro vestito per un amore in vendita, o su un palco di un locale di periferia immerso nella nebbia di campagne tossiche, ti prende il cuore e te lo sporca; te lo sporca di parole pesanti e importanti, di passione che straborda e allaga tutto, e ti lascia spiare dentro la storia e la vita di quei personaggi di cui schiviamo lo sguardo, quando camminiamo per strada, per i quartieri della Napoli Spagnola, quelli stretti, dove non c’è il sole, e i panni stesi non si asciugano mai per davvero; quelli dove l’umidità entra nel cuore e rende tutto più umido, anche l’umore, i sorrisi e persino le lacrime.

Quando ce lo ritroviamo davanti sorride, aperto al dialogo e al sole che gli scalda le spalle. Parliamo dello spettacolo che ce lo ha fatto conoscere: Dignità Autonome di Prostituzione, al Teatro Bellini di Napoli. Da allora, lo abbiamo rincorso e ascoltato. E così, ci siamo innamorate di una canzone in particolare: Figlio e’dio.

Ho voluto sapere tutto di quel pezzo. Volevo guardare negli occhi chi lo aveva scritto, ne volevo sentire parlare, volevo sapere chi c’era dietro quelle parole, la storia di chi era stata raccontata; avevo fame di sapere quanto ne sapesse, Raffaele Giglio, di Napoli e dei suoi personaggi; volevo capire, tastare con mano la verità estrema ed assoluta di cui profuma quella canzone che mi ha catturata prima in un teatro, poi in un locale, e poi su riascoltata su Youtube, più e più volte, senza sosta.

Ma chi è Giglio, da dove nasce?

– Prima di tutto da un’urgenza; dalla voglia di volersi esprimere con un determinato idioma. Prima di adesso le mie scelte sono sempre andate al di là dei confini italiani e napoletani. Anche come ricerca di ascolto o letteratura. Poi ad un certo punto ho cominciato a riflettere, per strada un giorno una signora mi disse :“ Tu sei napoletano, mi fai una canzone in napoletano?”. E io non ne sapevo fare nemmeno una, mi trovavo a Pisa, per strada; la signora stava accompagnando un vecchio signore col morbo di parkinson, che in gioventù era stato un violinista “fantastico” e che aveva suonato solo cose napoletane. “Vatti a studiare queste cose!”. Più altri input che sono venuti fuori col tempo ho deciso di mettermi a studiare, di conoscere bene la lingua napoletana; mi so messo col dizionario, con tantissimi libri.

Comincio a capire molte cose. Dalla sicurezza con cui parla si percepisce una passione senza misura; nel testo di Figli e’Dio si avverte uno studio linguistico, un utilizzo del napoletano più antico, l’attenzione a certe vocali e consonanti che nell’attuale dialetto non ci sono più. Ma io, volevo saperne di più. Volevo sapere da dove fosse nata quella canzone, e sopratutto quel testo.

– Quel testo è nato dalla mia esperienza a casa di un femminiello in particolare, che mi ha ospitato, in una fase di passaggio. Vivere lì, con lei, non mi ha mai fatto sentire in pericolo, mai in una situazione lasciva; non ha mai utilizzato le mie confidenze contro di me; io ero in giro per i quartieri spagnoli fare interviste ai personaggi che poi si ritrovano nelle mie canzoni, e quindi la conoscevo già prima. E tutto è nato lì. Tutto. Qualsiasi cosa. Ero alla ricerca di rapporti umani. E lei è stata stra-umana con me:innanzitutto mi ha dato una mano a dormire. E poi lei non ci sta mai, mi lasciava tranquillamente a casa sua; mi è stata presentata una sera da una signora che abita lì di fronte, ed è stato subito amicizia perchè a me piace Fellini, e lei mi ha raccontato proprio quegli anni; lei si è vissuta la Dolce Vita Romana degli anni 50, mi ha visto attento,attivo e appassionato e quando mi trovavo nei Quartieri e passavo sotto casa sua mi fermavo sempre: nel tempo si è creato un rapporto di amicizia e di fiducia; e piano piano ha cominciato a raccontarmi la sua vita, la sua storia.

E l’Amore? Com’è, di cosa respira e odora, di cosa si nutre?

– L’Amore, a meno che non trovino una persona che li accettano, e che li ami in quanto se stessi, è difficile. Io non posso dirti qual’è la verità assoluta, però posso dirti quello che è arrivato a me. E’ fatto tutto di tanta solitudine e, anche se è in un contesto molto popolare, quando chiudono la porta, hanno un letto vuoto. Un reale rapporto casalingo, è molto raro. Però questa è la mia esperienza, quello che ho visto. Il loro amore, anche se fatto di solitudine, è un amore universale; più crescono più diventa universale; un amore interessato nei confronti del benessere universale, nello stare bene con le persone, nei confronti della vita. L’Amore è questo e, tra le varie cose che mi sono state dette questa te la devo dire: la parola femminiello esiste in quanto si è in questa terra, a Napoli.”

Poi, si interrompe. Il sole è andato via e lui lo rincorre con lo sguardo, cerca i suoi raggi in giro per piazza Bellini, e i suoi occhi, curiosi e forse un po’ stanchi, si fermano ad un tavolino poco più avanti. Sorride. “Ci Spostiamo?”

Seguiamo lui, e la sua voglia di calore. “Aaaaaah, come cagn tutt cos

-E quindi ti dicevo, la cultura dei femminielli è intrinseca nel napoletano: in Sardegna, mi raccontavano, non siamo femminielli, in Sicilia idem. È una cosa solo napoletana. Ed è bella, ti riempie la bocca; dal punto di vista sintattico unisce una parola femminile ad una maschile in quanto termina con una consonante maschile; la parola gay invece ha cementificato solamente queste caratteristica. A Napoli i femminielli sono vasciaiole, coi zoccolilli, col pigiama, senza trucco: a differenza di altre zone della Campania stessa, hanno delle caratteristiche ben precise.

Ma lei, lui, o figlio e’Dio che parla, chi è?

-Il femminiello della mia canzone è vecchio; si sta avvicinando a quell’attimo. A me interessava capire il rapporto con la fine, come ci si rapportava: dopo tutte le soddisfazioni, dopo aver capito il tradimento del suo corpo, che era un fastidio, che era infame; dopo aver capito che ormai la gente lo ha accettato, ha un lavoro come tutti; arrivata alla fine, pensa a come Dio possa ascoltare la sua voce. Si chiede: cosa pensa Dio di me? Che sono uomo o che sono donna?

Resta sospesa nell’aria quella domanda, abbandonandosi ad un minuto di silenzio che non da fastidio, perchè forse è un pensiero che merita una riflessione in più, un perdersi momentaneo. C’era la piazza a parlare per noi. Ma lui, questo personaggio dai tratti un po’ nomadi e teatrali al contempo, comincia a prendere una forma precisa, e sotto il sorriso c’è anche un po’ di timidezza. Leggera, appena accennata. Parliamo del disco in prossima uscita, registrato all’interno della Basilica di San Severo a Capodimonte, nella Sanità.

-Ed è stato bellissimo, meraviglioso. A me è piovuto un angelo in testa, che si chiama Francesco Corbisiero, un regista e documentarista, direttore della fotografia, giovanissimo, nu bell guaglione, un ragazzo molto serio e in gamba e lui ha ripreso ogni secondo del disco. Abbiamo ripreso tutto, qualsiasi cosa. Il disco è tutto in presa diretta. Ci ho messo tanto cuore.

Ma io, avevo un’ultima domanda ancora. Io volevo sapere l’Amore di Giglio dov’era e com’era. Nei suoi testi emerge sempre un sentimento, e io volevo vederlo raccontare, volevo sentire quella voce a tratti limpida rivelare qualcosa che mi facesse dare un occhiata più intima, più da vicino. Uno sguardo fugace attraverso il buco della serratura.

– Io? Io amo molto stare da solo. Da quando sono piccolo. Mi piace la sensazione di essere perennemente innamorato, ma quello non te lo da soltanto una donna o un uomo, te lo dà anche una canzone, un libro; mi piace tanto quando si sta in un rapporto, amoroso o non, in totale leggerezza, senza essere affossati da pensieri che ti distolgono da quell’attimo. Sono consapevole che è un fatto magico. È proprio magia. Anche quando ti rendi conto che chi ha provato un grande amore, ha vissuto una magia.

In Primavera uscirà il suo nuovo album, con testi revisionati da Salvatore Palomba, famoso saggista, poeta e paroliere italiano, autore di molte canzoni di successo tra cui “Carmela” cantata da Sergio Bruni. Io, non vedo l’ora di ascoltarlo, di immergermi nelle atmosfere che ho intravisto dipinte nelle sue parole affrettate.
Quando ci alziamo per andare via si alza di scatto, nell’istintivo gesto di una galanteria un po’ retrò che gli si addice tutta. Lo lasciamo seduto lì nella piazzetta, a godersi quel sole che aveva rincorso per tutta la mattinata. Tra un passo e l’altro, tra un fosso e qualche sampietrino messo male, mi viene da pensare ancora una volta a quella canzone, mi gira e rigira tra i pensieri la domanda su che voce può sentire Dio quando si sta per morire. Ma alla fine mi piace pensare che la risposta sia molto semplice, forse troppo favolistica: quanto conta il suono della voce rispetto al messaggio che si comunica? Se uno è figlio di Dio, conta solo quello.