Pino Daniele cantò di Napoli dipingendola di mille colori, paragonandola ad una carta sporca, gettata in terra ‘ca nisciuno se ne importa.

Paradossale considerato che non se ne dice mai abbastanza quando si tratta di Napoli, dell’immondizia che sporca le sue strade, la camorra che uccide i suoi ragazzi, i tifosi che sventolano lo stemma Della Casa Reale dei Borbone.

Una situazione complessa, questa volta, almeno quanto complesso è lo stemma borbonico esibito da alcuni gruppi ultras già a Novembre.

La sicurezza ai cancelli degli stadi si sincera, con meticolosi controlli, che non siano introdotte sciarpe, striscioni, magliette, recanti quello stemma. L’azienda Kappa lo stampa ben visibile sulle nuove magliette, delle quali autorizzata era la vendita, eppure il ritiro dal commercio è stato immediato.

Correvano gli anni ’70 quando già lo scaramantico Ferlaino ripensò alla sua proposta di apporre lo stemma sulle magliette dei calciatori partenopei tenendo conto delle scarse vittorie dei reali borbonici.

Azzurro come il cielo, come il mare, azzurro come i colori della Casa Reale dei Borbone è l’azzurro partenopeo e Carlo III e famiglia, a Napoli, in verità, non si ritroverebbero compressi solo in uno stemma che sventola tra cori ed esultanze. A ben vedere i loro nomi firmano la magnificenza di edifici quali il Teatro San Carlo, il palazzo Reale di Capodimonte, echeggiano tra i vicoli di interi quartieri che illo tempore fecero parte di un progetto di ripresa e rivalutazione della città di Napoli. Obiettivi raggiunti in tempi brevi con grandiosi risultati, tutt’oggi ammirabili.

Che Cavour fosse tanto permaloso da offendersi per le considerazioni in merito al suo ruolo nella storia mosse da De Laurentis non è accertato, ma il popolo napoletano più che coleroso è colleroso. Eppure, non c’è una Digos che sanzioni gli insulti lanciati dagli spalti. Sotto i riflettori finisce la maglia del Napoli sporcata dalla sintetica erba degli stadi, dai 90 minuti di sudore e dalla ciorta per le sue vittorie, ora anche dallo stemma della dinastia dei Borbone. E no! Che la lava del dormiente Vesuvio si sbrighi a ripulirla anche da ciò, consigliano le tifoserie avversarie. Scomodare il vulcano addormentato fa parte del calcio, roba da curve, un simbolo di identità storico-culturale è, invece, oltraggio all’intera Italia.

‘Voi amati sudditi sognate l’Italia ma arriverà il giorno che non avrete più nulla, nemmeno gli occhi per piangere’, profetizzò Francesco II di Borbone. Già, l’Italia unita copre le sue statue, occulta il suo patrimonio artistico in rispetto della sensibilità e cultura iraniana, spaventandosi poi di un simbolo, limitando la libertà di espressione di una Napoli che sebbene dimenticata non dimentica la sua storia.

La polemica assume i toni di disquisizione politica, i più pessimisti vociferano di ostentati tentativi rivoluzionari da parte dei sudisti. Esisteva un nord ed esisteva un sud già al tempo di quella prima timida e sofferta Unità d’Italia. Fu scelta, per il nostro stivale, la divisione in regioni, nel rispetto delle differenze culturali rendendosi al contempo conto che di Italia unita non si sarebbe mai parlato. Un’Italia unita nella sua letteratura, ma non nella sua lingua, che nasce dalla prepotenza del singolo e si divide in sfumature dettate dalla miriade di dialetti che ci rendono tutti diversi, che sono stati la lingua con cui si è raccontata di un’Italia fatta di popoli e storie. Un’Italia unita nella sua religione, ma non nella sua fede calcistica, che di fronte a ventidue ragazzi ed un solo pallone rivendica la sua identità storico-culturale, sventolando bandiere che ricordano da dove si è partiti e forse si domanda se da qualche parte si è davvero arrivati.