Siamo agli inizi del ‘900.
Napoli è caotica, freme già allora di mille contraddizioni e di un’energia che attira intellettuali, poeti e scrittori da tutta Europa.
E’ una notte mite, si avverte già un accenno di quella calura che, di lì a un mese, darà il tormento ai napoletani nelle ore notturne. La frescura della notte si attacca alla pelle e anche un po’ al palato mentre un uomo inizia a cantare.

“Si ‘sta voce te scéta ‘int”a nuttata,
mentre t’astrigne ‘o sposo tujo vicino…
Statte scetata, si vuó’ stá scetata,
ma fa’ vedé ca duorme a suonno chino…”

Una serenata senza destinatario, un’anomalia per i canoni musicali dell’epoca. Qualcuno si affaccia alla finestra, i più restano ad ascoltare con orecchio curioso.
L’uomo invita la sua amata a non dar segni, a camuffare indifferenza mentre, con ogni probabilità, dorme accanto al suo sposo e bagna il suo cuscino di lacrime. Così nessuno saprà a chi è realmente destinata quella canzone, nessuno sparlerà di una donna sposata che ha ancora un uomo innamorato di lei.
L’uomo, emozionato e con il mandolino tra le mani tremanti, si chiama Edoardo Nicolardi.
La donna è Anna Rossi.
E questa canzone, che si chiama “Voce ‘e notte”, è destinata a diventare una delle più celebri canzoni napoletane di tutti i tempi.
Di una malinconia struggente, le sue parole saranno interpretate da grandi personalità: Peppino Di Capri, Lina Sastri, Massimo Ranieri, Claudio Villa, Mina.

Edoardo e Anna sono due giovani ragazzi innamorati. Innamorati di un amore folle e giovanile, quello che ti toglie il sonno e ti fa abbassare la voce fino a farlo diventare un bisbiglio quando ne parli, per paura che il vento si porti via le tue parole.
Ma Anna, che ha diciassette anni e tutta la vita davanti, è stata costretta dal padre a sposare un ricco commerciante settantacinquenne e a dire addio a Edoardo.
Così, il loro amore resta interrotto, spezzato a metà.

Ma gli amori impossibili hanno bisogno di parole.
Ne hanno bisogno per restare in vita, non solo nella nostra mente, per trovare un luogo in cui sopravvivere. E, se anche quel luogo è un giaciglio di spazi bianchi e inchiostro, lì gli amori impossibili attecchiscono e si fanno vivi.
E’ questo il senso di questa notte di maggio. E’ questo il senso di parole che si spezzano perché la voce viene a mancare e l’emozione si fa spazio nella gola di Edoardo.
I più non lo sanno e tornano a dormire, magari ridendo o spettegolando.
Anna, però, lo sa e tiene questa canzone stretta al petto mentre il respiro si fa via via più lento e si addormenta.

Passeranno alcuni anni. Il marito di Anna morirà di vecchiaia e, finalmente, lei sarà libera di amare e sposare Edoardo.

Un lieto fine che spesso manca, a volte sopravviene, quasi per caso, quasi per gioco. Un lieto fine in cui speriamo in molti ma che, alla fine, arriva per pochi. Perché gli amori spezzati, senza lieto fine, restano nella testa come mantra persecutori, ossessioni che diventano una triste nostalgia.
E questa canzone, scritta prima del lieto fine, ce lo ricorda.

“A tutti gli amori spezzati” aggiunge Edoardo prima di andar via, tornare a casa ad aspettare che la notte passi e si trascini via il dolore.
Gli storici sostengono non l’abbia mai detto.
Io mi gioco la testa che quelle parole ci sono state.