“Scegli il lavoro che ami e non lavorerai mai”.

 Spesso ci siamo imbattuti in questa famosissima citazione di Confucio, il più sdoganato dei filosofi cinesi. Ma se il nostro lavoro dei sogni è un lavoro d’ufficio, beh, Confucio lascia in sospeso ancora molti dubbi. Il lavoro indoor, infatti, è stato da sempre oggetto di studi da parte di esperti di gestione aziendale, architetti, psicologi e scienziati di tutto il mondo. Obiettivo primario è quello di trovare una soluzione di “luogo” che garantisca la massima efficienza, dunque produttività, da parte dei dipendenti. Nell’ultimo millennio, gli uffici che vanno per la maggiore sono gli open space che, come è intuibile dal nome stesso, sono spazi aperti, uffici senza divisioni. Il loro ideatore Robert Propst, nel 1964, propose questa tipologia rivoluzionaria di luoghi di lavoro che, almeno in teoria, dovevano favorire i rapporti umani e garantire un uguale scambio di informazioni tra tutti i colleghi.

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ufficio open space postazioni lavoro, fonte: www.flickr.com

In America già gli uffici tradizionali venivano denominati cubicles, termine che deriva dal latino e che indica la stanza dove venivano rinchiusi gli ergastolani. Da “celle” di un alveare, i cubicles individuali sono stati trasformati in altre celle, collettive, solo un po’ più piccole,  con uno spazio orizzontale costituito dalla scrivania, e uno verticale dalle pareti posticce, basse, ma che (si pensava) garantivano comunque la privacy.  Ben presto ci si rese conto, però, che gli open space non erano quegli “Action Office” che lo stesso progettista aveva concepito. Ambienti flessibili, dinamici, come diremo oggi smart, che favorivano, insieme all’innovazione tecnologica, la possibilità di lavorare ovunque con un ottimale scambio di conoscenze e soluzioni all’interno degli stessi. Piuttosto il risultato di questi spazi aperti, paradossalmente, ha provocato una serie di malesseri e insoddisfazioni. Difatti stando ad alcune ricerche, effettuate nel 1998, dal neurologo Paul Thompson, si evidenzia il fatto che la produttività dei dipendenti che lavorano in ambienti open space diminuisce del 15%, andando ad influire così anche sulle prestazioni aziendali che si riducono così del 32%. Una delle principali cause di questo drastico calo, sempre secondo le ricerche, è sicuramente la distrazione. Infatti l’attenzione dei dipendenti è costantemente minata dai movimenti, gesti, rumori prodotto dai colleghi che condividono il medesimo spazio di lavoro.

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World Trade Center – fonte wikipedia

Stessa storia che ci raccontavano quando eravamo dietro i banchi di scuola: anche il brusio di sottofondo di pochi indisciplinati, provocava, automaticamente, un rumore continuo e fastidioso, a tal punto che ascoltare la docente diveniva difficile anche per il più sofisticato dei secchioni. Ecco, la stessa cosa accade in questi ambienti, dove,  il rumore di un telefono sommato a quello di un fax e, con l’aggiunta di colleghi che parlano in sottofondo, potrebbe essere percepito come una vera e propria bomba a orologeria, fonte di stress e risultato di poca privacy del dipendente. L’unica nota positiva che si rileva da questa impostazione di ufficio è, sicuramente, il risparmio di costi e di spazi, che di certo non giova i lavoratori, bensì i vertici aziendali.

Eppure gli edifici del World Trade Center, le twin towers, prima di essere attaccate, nell’ormai lontano 2001, erano piene di uffici di questo tipo. Uffici concepiti, all’epoca, per migliorare la comunicazione e la collaborazione tra i dipendenti. Open Space. Un paradosso che di certo in questo clima di terrore, dovuto agli ultimi attacchi terroristici, ci lascia con non pochi quesiti. Spazi aperti e poi…confini chiusi. Qualcosa stona. Nell’aria risuonano due parole: globalizzazione, internazionalizzazione. Gli economi parlavano di mercato unico, scambio di culture. Open Space. E poi di nuovo muri e barriere.