– All’ombra del Vesuvio tutto è possibile. –
Lo ripeteva di continuo, eppure Napoli non l’aveva mai vista.
Forse quella frase l’aveva letta in un libro e poi idealizzata, come si fa con le favole dell’infanzia o col primo amore. Forse gli era uscita semplicemente dalle labbra non appena aveva visto il vulcano dall’oblò dell’aeroplano, con la luce della cintura di sicurezza ancora accesa che gli distraeva un po’ lo sguardo.

Recitava la sua parte di straniero con una certa voglia di togliersi quella veste di dosso, come la felpa che si era legato in vita quando, sceso dall’aereo, un sole stranamente adombrato ma caldo l’aveva colpito sulla nuca.

“Dove vuoi andare?”

“Ovunque tu voglia, mi basta questo”

“Mi basta cosa?”

Ma non rispose. Serrò le labbra e il profilo del Vesuvio, sullo sfondo, sembrò fare da cornice perfetta a quel mosaico di occhiali scuri e labbra squadrate.

Sorridemmo senza dirci nulla.

Prendemmo un taxi per arrivare in centro.

Non aveva valigie. Non era qui per andare via, ma forse nemmeno per restare.

“Quanto ti tratterrai qui?”

“Il tempo necessario per scomparire”.

Intanto, fuori dal finestrino, i palazzoni grigi e bianchi si facevano più stretti, le strade più piccole e il cielo si divideva in pezzi da mettere insieme con più sguardi verso l’alto. Vidi il mare. Mi disinteressai del silenzio scuro nell’abitacolo e trattenni le parole come si trattiene un conato.

“A Napoli puoi baciare il cranio di un teschio e sperare che ti porti fortuna. A Napoli puoi osservare, con un solo sguardo, il mare e un vulcano ancora attivo, acqua e fuoco. A Napoli puoi chiuderti nel grembo di una serie di vicoli stretti e sentirti al centro del mondo, più che a Times Square o Piccadilly Circus”.

Non fu detto niente. La voce veniva assorbita dalla laringe.

E lui stava zitto. Senza vedere né me né lui.

A quanto appariva, la città non era in autunno. A dispetto del tempo, i colori non avevano quel calore freddo, quello del carbone che si raffredda, né erano adagiati nella fredda attesa di uno spegnimento definitivo. I colori erano veloci, vari, dispettosi.

Scendemmo dall’auto e i colori ci vennero addosso, ma noi non li assorbimmo, anzi restammo inerti mentre quelli ci scivolavano addosso.

“Novembre è sempre così?”

“Così come?”

“Così pericolosa per chi vede per la prima volta questa città”

“Di solito la pioggia è più forte”

“Di solito la pioggia è più forte…” fece eco lui.

Intanto eravamo scesi dal taxi. Passeggiavamo nelle strade del centro storico che si aprivano su grandi e improvvise piazze trafitte da obelischi. Le chiazze sull’asfalto si facevano più larghe e noi eravamo costretti a evitarle con lunghi passi mentre la superficie rifletteva le nostre suole.

“Raccontami qualcosa”

“Questo palazzo fu costruito nel 1768 durante la dominazione…”

“Non intendo questo tipo di racconto”

“In questa piazza mi sono innamorato per la prima volta. Così va meglio?”

“E dove eri di preciso?”

“Lì”. Ci spostammo in un angolo della piazza dove la luce si appiattiva lungo il solco dei palazzi antichi.

“Lo sai che i posti conservano le nostre sensazioni?”

Il boato di un tuono coprì le sue ultime parole. Non capii se avesse usato la parola “sensazioni”, “percezioni”, “azioni”, ma non ci fu tempo di discutere, perché la pioggia iniziò a cadere più forte, un torrente che si riversava dal cielo e si schiantava sull’asfalto scuro. Ci appiattimmo lungo il muro, per evitare di bagnarci.

“Però è passato tanto tempo da allora”.

“Sì, ma se ti metti nello stesso punto, ti innamorerai del primo passante”

“Ma ora non mi va di innamorarmi”

“Allora quando sarai pronto, torna qui, nel centro storico, in questa piazza, in quest’angolo”

“Mi prometti che ci tornerai?”

“Sì”

“Dici  – sì, lo prometto -”

“Sì, lo prometto” dissi velocemente, mangiandomi alcune sillabe. La parola promessa mi faceva ancora deglutire come se fossi davanti a una bestia feroce.

“All’ombra del Vesuvio tutto è possibile. Anche innamorarsi nello stesso punto, dello stesso amore, ma di una persona diversa”

Attendemmo che spiovesse.

Attendemmo un arcobaleno che non ci fu, un arcobaleno che sarebbe stato meraviglioso se si fosse proiettato tra noi e il Vesuvio mentre passeggiavamo sul lungomare.

Attendemmo che il mare si appiattisse un po’, i suoi argini mossi intorno alle rocce irregolari della costa.

La ringhiera che separava la strada dagli scogli era incrostata di ruggine, l’unico rosso autunnale che vedemmo quel giorno.

“Voglio vedere Ischia” disse, passando le mani su quel ferro irregolare e umido e guardando verso un punto lontano dove avrebbe dovuto esserci l’isola, invisibile, coperta dal grigiore di novembre che saliva dal mare.

“Poi dove andrai?”

“Dopo essermi lasciato alle spalle quello che sono, inizierò una nuova vita. Forse qui, forse tornerò indietro”

“Dicono Napoli sia il posto ideale da cui andar via, non da cui ricominciare”

“Io non voglio ricominciare, voglio altro. Secondo te, Napoli è il posto giusto per rinascere?”

Intanto un gabbiano sfiorò il mare e lasciò delle increspature violacee su quella trasparenza profonda.
All’ombra del Vesuvio tutto è possibile, anche lasciare una domanda aperta.
A rispondere, a volte, ci pensa la città.

Gianluca Grimaldi