Gli occhi non mentono, le sensazioni non tradiscono.
“Parto. Non dimenticherò né la via Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli; ai miei occhi è, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo”.

Queste le parole di Stendhal alla vigilia della sua partenza dalla città che rivaleggiava con la capitale francese: “In Europa ci sono due capitali: Parigi e Napoli”.

Era l’anno 1817 e tale era la capitale borbonica dello Stato più importante e ricco della penisola italica.
Una serie di primati, a testimonianza di una realtà storica soffocata da quella che è l’ancora attuale egemonia settentrionale, contraddistinse il Regno delle due Sicilie.In greco <<ritorno>> si dice nóstos. Álgos significa <<sofferenza>>. La nostalgia è dunque la sofferenza provata dal desiderio inappagato di ritornare. Per questa nozione fondamentale la maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine greca (nostalgia, nostalgie), poi altre parole che hanno radici nella lingua nazionale: gli spagnoli dicono aňoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica, ma spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall’impossibilità di ritornare in patria, il rimpianto della propria terra, il rimpianto del paese natio. E se lo spirito di Ulisse, il più grande avventuriero di tutti i tempi, ma anche il più grande nostalgico, rivivesse nei filoborbonici che, mossi da questo sentimento, guardano al Regno delle due Sicilie quando i Borboni governavano Napoli e la città era ricca e ammirata? I filoborbonici, però, quella “patria” vogliono riscattarla e così la nostalgia vale doppio. Un ritorno alla Napoli borbonica, non dimentica del suo passato e della sua nascita greca. Una nostalgia paralizzante? A sentire i tanti filoborbonici che popolano la nostra città il sentimento è tutt’altro che paralizzante, ma al contrario mobilitante. Questo moto dell’animo e degli intenti è dipinto come un ritorno a una condizione originaria, naturale, salvifica, da sempre latente sotto le macerie del tempo. Così il discorso si costella di termini come “rinascita”, “risorgimento”, “riscossa”, “ritorno” e simili. Cosa c’era in quel passato tanto rimpianto a cui la storia, scritta dai vincitori, non dà il giusto merito e valore? Il 20 marzo 1861 cessa di esistere il Regno delle due Sicilie. Battaglie violente, plebisciti d’annessione poco democratici e una serie di calunnie contro il governo dei Borbone, pone fine ad uno degli Stati italiani più potenti di quel secolo. Non sono pochi i documenti storici che testimoniano il potere economico e l’avanzamento sociale di Napoli, del Sud e dell’intero Regno meridionale. La conquista piemontese capovolse la situazione a tal punto da generare la cosiddetta questione meridionale e nacque un movimento di uomini e di idee che lottò per ridare lustro ad un Mezzogiorno martoriato e sfruttato. Il movimento prese il nome di “Meridionalismo”.

Una serie di primati, a testimonianza di una realtà storica soffocata da quella che è l’ancora attuale egemonia settentrionale, contraddistinse il Regno delle due Sicilie.

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Regno delle due Sicilie

Nel 1861 un censimento effettuato dal neonato Regno d’Italia dimostrò che il Regno delle due Sicilie era lo Stato preunitario più industrializzato in assoluto. Il Regno poteva vantare il maggior complesso industriale metalmeccanico d’Italia grazie soprattutto alla ferriera di Mongiana, allo stabilimento Ferdinandea e all’opificio ferroviario di Pietrarsa che dava lavoro a 1125 operai. Visitato dallo zar Nicola I e da papa Pio IX, fu voluto da Ferdinando I affinché il Regno non dipendesse da nessun altro paese e lì furono prodotti i primi treni a vapore, rotaie e un’immensa statua di Ferdinando II, ancora oggi conservata nel museo nazionale ferroviario. Il Polo siderurgico di Mongiana sfornava in media 1.442 canne per fucile e 1.212 canne per pistola al giorno, ancora una volta soltanto grazie all’intervento dei Borbone che ne migliorarono i mezzi di produzione aggiornandoli attraverso l’invio di alcuni studiosi in Europa che  studiarono così le metodologie inglesi e francesi per produrre ferro. Napoli e Castellammare, inoltre, avevano a disposizione la maggior industria navalmeccanica d’Italia.

Altri primati ancora: prima flotta mercantile d’Italia e seconda in Europa solo dopo quella inglese; prima nave a vapore dell’Europa continentale, la Ferdinando I; primo transatlantico a vapore d’Italia, la Sicilia, realizzata nel 1854; prima Compagnia di Navigazione del Mediterraneo; primo Codice Marittimo Italiano, il Codice De Jorio, redatto nel 1781 per il Regio Governo da Michele De Jorio, giurista di Procida; terza flotta militare d’Europa dopo quelle britannica e francese.Nel 1861 un censimento effettuato dal neonato Regno d’Italia dimostrò che il Regno delle due Sicilie era lo Stato preunitario più industrializzato in assoluto. Il Regno poteva vantare il maggior complesso industriale metalmeccanico d’Italia grazie soprattutto alla ferriera di Mongiana, allo stabilimento Ferdinandea e all’opificio ferroviario di Pietrarsa che dava lavoro a 1125 operai. Visitato dallo zar Nicola I e da papa Pio IX, fu voluto da Ferdinando I affinché il Regno non dipendesse da nessun altro paese e lì furono prodotti i primi treni a vapore, rotaie e un’immensa statua di Ferdinando II, ancora oggi conservata nel museo nazionale ferroviario. Il Polo siderurgico di Mongiana sfornava in media 1.442 canne per fucile e 1.212 canne per pistola al giorno, ancora una volta soltanto grazie all’intervento dei Borbone che ne migliorarono i mezzi di produzione aggiornandoli attraverso l’invio di alcuni studiosi in Europa che  studiarono così le metodologie inglesi e francesi per produrre ferro. Napoli e Castellammare, inoltre, avevano a disposizione la maggior industria navalmeccanica d’Italia.

I regnanti borbonici sapevano essere all’avanguardia anche per quanto riguarda quel che oggi definiamo “welfare state”. Dopo la caduta di Napoleone, l’unico a lasciare in vigore i codici francesi fu il sovrano Ferdinando I, il quale incaricò alcuni giuristi meridionali di rielaborarli e nel 1819 venne alla luce il Codice per il Regno delle Due Sicilie, che lo pose al primo posto anche dal punto di vista giudiziario e civile, in quanto grazie a quel testo fu instaurato il primissimo sistema pensionistico.

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Ferdinando I

A Ferdinando va altresì attribuita la fondazione di uno dei pochi nuclei socialisti in grado di sopravvivere tra realtà e utopia: Ferdinandopoli, meglio nota come San Leucio. Alla base di questa piccola realtà c’era uno dei primi statuti socialisti, il quale si basava su tre principi modello: l’educazione, considerata l’origine della pubblica tranquillità; la buona fede, ossia la prima delle virtù sociali; il merito, la sola distinzione tra gli individui; il lusso e i testamenti non furono inoltre previsti. Tutti dovevano essere uguali dinanzi alla legge e allo Stato e perciò non c’erano differenze fra maschi e femmine né fra classi sociali. Questa piccola realtà istituzionale riusciva concretamente a far vivere degli ideali socialisti anacronistici e ritenuti ancora oggi utopici.
Ci si potrebbe ancora dilungare, basti solo pensare, ad esempio, all’efficienza con cui veniva effettuata la raccolta differenziata; quello che oggi nessuno riesce a fare i Borbone lo avevano fatto oltre due secoli fa, dimostrando una lungimiranza che abbraccia vari settori. I regnanti portarono infatti alla luce gli Scavi Archeologici di Pompei ed Ercolano, attirando l’attenzione e lo stupore del pianeta, istituirono il primo museo al mondo (l’odierno Museo Archeologico Nazionale) dove fu esposta anche la collezione Farnese che Ferdinando I donò al popolo del suo Regno. Costruirono, inoltre, la Reggia di Caserta. Nonostante la storia ufficiale oggi non parli di un Regno delle Due Sicilie florido, tecnologicamente e culturalmente all’avanguardia, bensì di uno Stato povero e arretrato, c’è chi si adopera affinché quella storia venga riletta nella sua veridicità, in nome di una napoletanità e di uno spiccato senso di appartenenza alla propria identità storico-culturale. E ritorna così attuale quella nostalgia non sentita come sentimento passivo ma percepita come uno dei raccordi fondamentali tra l’identità personale e i processi di identificazione collettiva.

A tal riguardo noi di NBDV abbiamo voluto approfondire l’argomento con un  opinion leader della questione meridionale, lo scrittore e giornalista, nonché storicista, Angelo Forgione.  Angelo nel 2008 ha fondato il Movimento V. A. N. T. O (movimento di valorizzazione della napoletanità) perché stanco di vedere la sua Napoli stuprata dall’uomo e quindi con l’obiettivo di restituire ai napoletani e alla città di Napoli la dignità altissima che merita, come espressamente scrive nel suo blog (angeloxg1.wordpress.com).  Alla nostra domanda su quanto la nascita di un movimento come questo, passando per la pubblicazione del suo Made in Naples, abbia smosso le coscienze dei cittadini napoletani, di nuovo memori della propria identità storico-culturale dalle origini greche fino alla conoscenza e alla valorizzazione del fertile e illustre passato borbonico, ci dice: <<la consapevolezza identitaria e la riscoperta della cultura napoletana, che non è solo borbonica, ma decisamente più ampia e plurimillenaria, hanno fatto passi da gigante. Basta vedere anche quanti blog e portali di informazione culturale-identitaria sono sbocciati negli ultimi tempi. Io sono stato uno dei pionieri, ma poi si è creata una fitta rete di apprendimento e di divulgazione, di scambio, con tutti i limiti e le controindicazioni che pure si presentano nel copia e incolla senza verifica. Il vero problema è arrivare a quella gran parte di popolo che di libri non ne legge e che alla rete neanche accede e se lo fa è solo per scopo ludico e improduttivo>>.

E allora noi gli facciamo notare che nonostante sia a volte dilagante un sentimento pessimistico nelle nuove generazioni, alla luce anche di quella che è un’evidente crisi occupazionale nel meridione d’Italia, oggi sia molto attuale un sentimento filoborbonico proprio tra i giovani che avvertono forte l’eco di un riscatto morale, storico e sociale. Angelo, cogliendo appieno, illustra come la rivisitazione del passato napoletano, glorioso ma mortificato, sia nata – non a caso – in prossimità delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Parla, infatti, di come si sia sviluppata una nuova ondata di libri pubblicati da meridionalisti di spicco, alla quale lui stesso ha partecipato con il già citato Made in Naples e, proprio in questi giorni, con l’uscita del nuovo libro Dov’èla Vittoria. <<Questi libri>> – spiega – <<hanno fatto breccia a tal punto da stimolare una serie di pubblicazioni della corrente opposta, favorendo così un forte dibattito dove è poi il lettore a giudicare in base a ciò che percepisce nel presente. E più questi libri venivano letti più la crisi aumentava. La gente, leggendo, si è accorta che quello che accade oggi ha un filo conduttore che parte dal passato e non crede più alla retorica storica e alle chiacchiere della politica nazionale, che del Sud ha dimostrato di fregarsene. Da qui ad immaginare un nuovo Regno delle Due Sicilie però lo trovo fuori luogo. Viviamo il presente, non il passato. Viviamo uno scenario europeo complicato. Pensiamo a migliorare la nostra disastrata piattaforma sociale iniziando ad alzare il capo, smettendo di prendere ordini da Roma e Milano. I primati non ce li toglie nessuno. Quello che deve interessarci è che ancora li sforniamo, nonostante tutto>>.

Proseguiamo l’interessante confronto con Angelo, avanzando una proposta e chiedendogli se dopo aver fondato il movimento pensa che potrebbe essere attuabile una politica di recupero del nostro passato borbonico, non in termini di un ripiegamento nostalgico fine a se stesso ma promuovendo – ad esempio – sul nostro territorio azioni influenti nelle scuole a partire da una rieducazione che coinvolgerebbe i bambini fin dalle elementari con progetti extrascolastici di approfondimento della storia napoletana. Si pensa, nella fattispecie, a un recupero della musica popolare, che è sempre più diffusa come simbolo di ribellione e di appartenenza alla propria terra, o ad un’operazione sinergica da parte  delle istituzioni che potrebbero coinvolgere fumettisti napoletani in grado di iniziare i bambini, nella loro prima fase formativa – attraverso un linguaggio più diretto – a una consapevolezza maggiore delle proprie origini e della propria storia educandoli così, fin da piccoli, a un rispetto sempre più forte per la propria terra. E lui, ricordandoci come il gap nella questione nasca proprio da una “certa” concezione della storia napoletana, ci dice: <<È difficile accedere nelle scuole e parlare in certi termini della Storia di Napoli. Di esperienze del genere ne ho fatte anche personalmente, ma sempre per iniziativa di alcuni docenti. Quello che i testi insegnano, lo sappiamo, è tutt’altro. Ma non solo a scuola. Le università di Economia non insegnano l’opera di Antonio Genovesi e la sua Economia Civile, che viene prima del tanto evidenziato Adam Smith e la sua limitata Economia Politica. Però, se sul piano culturale siamo all’anno zero, sul piano artistico molto si può fare per educare i più piccoli almeno all’amore per le loro tradizioni>>.

Prima di salutare Angelo, non senza ringraziarlo vivamente per la sua grande disponibilità, vogliamo condividere con lui un tema che ha scaldato gli animi nelle ultime settimane, chiedendogli una riflessione sull’immagine di Napoli nella compagine dell’Expo milanese e nello specifico sulla campagna pubblicitaria denigratoria nei confronti della pizza (prodotto, tra l’altro, borbonico se si tiene conto di una più attenta ricerca nelle fonti storiche che farà felici i filoborbonici e che farebbe coincidere la nascita del simbolo nostrano nel mondo non nel 1889 come omaggio alla Regina Margherita di Savoia, consorte del re d’Italia Umberto I, bensì un secolo prima quando veniva preparata  per la regina Maria Carolina d’Austria, consorte di Ferdinando IV di Borbone re Napoli). Nello spot in questione si vede un bambino che alla pietanza napoletana preferisce un panino del McDonald’s e Angelo in tutta risposta commenta così: <<Io non parlerei di denigrazione. Direi che si tratta di complesso di inferiorità da una parte e di marketing dall’altra. La pizza napoletana è impareggiabile, e sminuirla è operazione risibile. Questo è un mondo in cui parla chi più paga. Poi si può ricamare sui significati dell’Expo, ma alla fine è sempre il prodotto di qualità a dire l’ultima parola, e spesso senza dover spendere un euro. State tranquilli, perché Napoli è sì una città sconfitta ma la sua cultura non si è mai piegata a nessuno in tremila anni di storia, neanche ai Romani, e non si piegherà nemmeno nei prossimi tre millenni>>. A queste parole incoraggianti e tenaci, di fronte all’impegno costante e di spessore per Napoli e le sue vicende da parte di un giovane come Angelo, qualcosa si muove dentro. Abbiamo una storia, un patrimonio da far conoscere e da tutelare, che sia da apripista per nuove e importante sfide. Questo è lo spirito giusto per fare di quel passato borbonico un modello di imperitura tradizione, innovazione e cultura nell’attualità del presente incerto e aggrovigliato.  A Ferdinando va altresì attribuita la fondazione di uno dei pochi nuclei socialisti in grado di sopravvivere tra realtà e utopia: Ferdinandopoli, meglio nota come San Leucio. Alla base di questa piccola realtà c’era uno dei primi statuti socialisti, il quale si basava su tre principi modello: l’educazione, considerata l’origine della pubblica tranquillità; la buona fede, ossia la prima delle virtù sociali; il merito, la sola distinzione tra gli individui; il lusso e i testamenti non furono inoltre previsti. Tutti dovevano essere uguali dinanzi alla legge e allo Stato e perciò non c’erano differenze fra maschi e femmine né fra classi sociali. Questa piccola realtà istituzionale riusciva concretamente a far vivere degli ideali socialisti anacronistici e ritenuti ancora oggi utopici.