Ad ogni livello un’usanza spaventosa, in ogni secolo un angolo buio e raccapricciante.

La “stratigrafia” del sottosuolo napoletano è un meraviglioso libro che permette di leggere tra le righe gli evidenti passaggi storici, stilistici e culturali. E’ fondamentale, per ogni curioso, voler guardare tutto e a fondo, avendo la voglia di brancolare nelle pagine più tenebrose della città. Quando poi il mistero buio ti apre le porte e ti attira nel suo ventre, come il bellissimo abbraccio delle scale del presbiterio della chiesa di Santa Maria alla Sanità , disegnate da Fra Nuvolo (XVI sec.), che custodiscono, senza nascondere  agli occhi di nessuno, l’ingresso alle inconsuete catacombe di San Gaudioso, non resta che lasciarsi prendere. Senza soffermarci troppo sulle vicende storiche delle catacombe, è comunque indispensabile leggere due righe per capire di cosa stiamo parlando e perché.

La struttura è stata rimaneggiata più volte nel corso dei secoli, l’ultimo intervento è datato nella prima decade del XVII secolo, ma i primi cubicoli sotterranei risalgono probabilmente al V secolo. La fama del cimitero sotterraneo  inizia alla morte nel 452 del vescovo africano Settimio Celio Gaudioso, stabilito a Napoli con altri cristiani gli ultimi anni della sua vita. La fama del vescovo in vita fu tale da indurre i cristiani del posto a riconoscere quei cimiteri sotterranei, luogo di eterno riposo dell’ africano dopo la morte,  come Catacombe di San Gaudioso.
Secoli dopo i Domenicani e i nobili napoletani sceglieranno di nuovo quel luogo per continuare la lunghissima tradizione delle sepolture nei cimiteri sotterranei  napoletani.
I cambiamenti nelle catacombe non furono soltanto strutturali. Adattando la struttura ai nuovi tipi di sepolture e pratiche post mortem i Domenicani cambiarono completamente aspetto alle catacombe, modificandone in modo significativo anche l’uso.

Oggi all’osservatore saltano all’occhio dei particolari agghiaccianti durante la visita, in primis gli affreschi sulle pareti, in buonissimo stato di conservazione, che raffigurano degli scheletri umani agghindati con le vesti e gli strumenti del mestiere che il nobile defunto esercitava in vita. La cosa particolare è che gli affreschi non coprono un loculo né sono al ridosso di una tomba , ma lo scheletro, dipinto dai piedi fino alle ossa del collo, veniva “completato” con la testa mozzata del defunto incastrata in un vano con la parte posteriore della calotta nel muro e il viso in vista. Così il giurista ricco, blasonato e rispettato in vita continuava ad essere tale agli occhi dei visitatori delle catacombe, che non potevano fare a meno di guardarlo in viso e riconoscerlo.

In quegli anni (XVI-XVII sec.) la testa era considerata sacra, perché sede dei pensieri e non poteva subire lo stesso trattamento e lo stesso deperimento del resto del corpo. Se la testa mozzata veniva accuratamente inglobata nelle pareti dei corridoi delle catacombe, che fine faceva il resto del corpo? Le ossa venivano accatastate in ossari con migliaia di altre ossa o tumulati in tombe private, ma prima il corpo subiva un processo particolare. Veniva adagiato in posizione fetale su uno “seditoio”, volgarmente conosciuto come “scolatoio” o “cantarella”, cioè dei veri e propri sedili scavati nel tufo con un vano sottostante dove far colare tutti i liquidi del corpo, aiutati anche da persone addette, i cosiddetti “schiattamorti”  che con strumenti adatti acceleravano il processo. Si cercava così di risparmiare spazio per la sepoltura, data la grandezza del corpo privo di tutti i liquidi e cranio, ma si evitava anche la riesumazione dello stesso dopo qualche anno, poiché questi sono stati pensati come tentativi di sicurezza igienica della sepoltura nella nuda terra.
Ovviamente il lato spirituale non mancava; i peccati della carne del defunto defluivano per sempre insieme a tutti i suoi liquidi interni. Nei corridoi delle catacombe si susseguono vari affreschi, ogni scheletro ha il suo nome e il mestiere. Tenero, in un luogo così surreale, è anche il dipinto che raffigura due giovani sposi che si tengono per mano, una stretta di mano fatta solo da ossa.
In un luogo in cui i signori  mostravano, anche nella morte, il loro più cieco narcisismo e potere terreno, non poteva mancare una figura che tenesse a bada i malintenzionati e gli spiriti maligni, il guardiano. Incastonato nella parete di fondo del corridoio principale, uno scheletro umano con più vertebre del normale tiene sott’occhio l’intero ambiente, pronto a spaventare e a cacciar via chiunque intende, ancora oggi, mancare di rispetto ai morti.

Si narra che il principe della risata, Totò, passasse molto tempo nelle catacombe del suo quartiere e che di fronte a questi singolari affreschi abbia avuto l’ispirazione per scrivere la sua poesia  più celebre, A’ livella.

 “E cosa aspetti,oh turpe malcreato, che l’ira mia raggiunga l’eccedenza? Se io non fossi stato un titolato avrei già dato piglio alla violenza!” (a’ livella, Antonio De Curtis, Livella e poesie d’amore, Newton Compton, 2010)