‘O rraù ca me piace a me
m’ ‘o ffaceva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
io nun songo difficultuso;
ma luvàmmel’ ‘a miezo st’uso

Sì,va buono:cumme vuò tu.
Mò ce avéssem’ appiccecà?
Tu che dice?Chest’ ‘è rraù?
E io m’ ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià…
M’ ‘ a faja dicere na parola?…
Chesta è carne c’ ‘ a pummarola

(Eduardo De Filippo)

Domenica mattina nelle case napoletane significa una sola cosa: ragù.

E spesso, più che di una tradizione, si tratta di un’esigenza. Un’esigenza che richiede una pazienza esemplare, che accetta il trascorrere delle ore (dei giorni) come condizione necessaria e sacrificio irrinunciabile. Ogni nonna che si rispetti sa che il vero ragù “addà pippià”, deve cioè cuocere a fuoco lento per il tempo necessario al raggiungimento della giusta intensità di sapore. E c’è solo un modo, poi, per verificare la compiutezza dell’impresa: il piatto pulito.
Per un napoletano, infatti, esiste un istinto più radicato di quello di sopravvivenza, un istinto che muove le coscienze nella direzione dell’appagamento più purificatorio , quello che ti fa poggiare con soddisfazione le mani sul ventre ed emettere un fragoroso “aaaaaahh” di approvazione. Sto parlando dell’istinto di fare la scarpetta.
E’ una domenica mattina come le altre, quindi. Mi sveglio più o meno di buon’ora, entro in cucina per fare colazione e… mia nonna sta cucinando.
Con gli occhi che rivelano i residui di una serena confusione (“notte da leoni, mattina da coglioni” mi dice mio padre), la osservo con curiosità distratta mentre si muove sicura fra pentole e padelle.
Lei mi guarda di riflesso, stranita. Sa, infatti, che la cucina non rientra nei miei interessi.
Ad eccezione del galbanino che sciolsi sul fornello elettrico più o meno dieci anni fa, non ho mai cucinato nulla. E il mio rifiuto trova il suo esempio più efficace nel fatto che non sia nemmeno in grado di fare il caffè. I dosaggi e le proporzioni della moka sono da sempre il mio più grande punto interrogativo, dopo il paradosso del gatto di Schrödinger .
In realtà nutro nei confronti della cucina una sorta di diffidenza. Credo (non con molta convinzione, ma con una certa speranza) che sia un’arte accessibile a tutti, con una ricetta sotto gli occhi.
Mentre mi sforzo di conquistare la lucidità necessaria alla riflessione sulle capacità umane, presa da un improvviso desiderio di conoscenza, guardo mia nonna con le sopracciglia aggrottate e le chiedo “mi spieghi come si fa il ragù?”. Lei mi sorride con incredula soddisfazione “certo a nonna, chest è ‘a vota bona che te ‘mpar a fa’ coccos”. Poi si siede e si prepara alla lezione, così mi attrezzo per prendere appunti, nel caso in cui un giorno volessi imparare a cucinare. Certo, è improbabile che mi cimenti col ragù, ma le informazioni inutili sono un po’ la mia cifra distintiva, come quella volta che inventai una filastrocca con annessa coreografia per imparare i nomi di tutte le piante utili per combattere la disfunzione erettile.
Per prima cosa ti serve la carne: tracchiulella di maiale e fettine di vitello fatte ad involtini
Potete immaginare, ora, che io ignori completamente quale parte del maiale si intenda per “tracchia”, ma una veloce e disinteressata ricerca su Google mi suggerisce che si tratta delle costine.
Devi poi mettere la carne in un tegame con sugna e olio e lasciare soffriggere finché non si dora
Quando ho cominciato a riconoscere il retrogusto della sugna, l’ho ritrovato in ogni piatto che mia nonna mi abbia mai proposto. Sono così stata in grado di trovare una spiegazione al tormento della larghezza delle mie cosce, che se prima spacciavo per ingiustizia divina, ora accolgo come punizione.
Avere una nonna che cucina così bene deve pur nascondere i suoi lati negativi, e se l’ago della bilancia spostato di cinque unità più avanti rispetto ai miei desideri più reconditi deve essere il prezzo da pagare, allora io lo accetto con stoica rassegnazione.
Aggiungi il passato di pomodoro e sale quanto basta e lascia cuocere lentamente per circa due ore. Deve “pippiare”, accussì ricev ‘a nonna mia
Solo due ore? Pensavo ce ne volessero almeno cinque o sei
Nennè, si ‘o teness tutt stu tiemp nisciuno me ricess ca’ song vecchia

In conclusione, il rifiuto della realtà, che mi costringe a guardare la vita come un insieme infinito di cose che saprei fare e che non faccio per mancanza di tempo, mi suggerisce che cucinare il ragù non è un’impresa impossibile e, con un po’ di dedizione, sarei in grado di lasciarlo pippiare anch’io.