Sei appena sceso dal treno e mi chiedi di andare in quel posticino carino accanto al porto perché, secondo te, “la caprese che fanno lì è la migliore del mondo”.

Io non sono d’accordo ma ti assecondo, perchè non mi va di litigare un attimo dopo che sei tornato. Ti trovo raggiante, entusiasta, quasi su di giri: oggi, se possibile, sei pure più egocentrico del solito. Cominci a parlare, sei un fiume di punti esclamativi in piena. “Il  viaggio è stato  proficuo! Ho acquisito tanti nuovi clienti: alcuni già mi adorano, altri dovrò lavorarmeli per bene! Il mio capo mi ama! Dal mese prossimo finalmente avrò l’aumento! Finalmente potrò prendere il nuovo cellulare”, dici. In tutto questo parlare di te, ti dimentichi anche solo di chiedermi “e tu come stai?” ma soprattutto ti dimentichi di darmi anche solo un bacio. Io sono qui, ti ascolto e nel frattempo penso. Penso a quanto sia ingiusto ogni volta che io provi delusione, con te. Siamo stati tante di quelle cose, io e te. Neppure me le ricordo. Ci siamo conosciuti due anni fa ad un convegno sulle nuove tecnologie, ti ho scritto per chiederti una dichiarazione sulla confluenza tra ambiente ed economia, mi hai risposto “a scrivere non sono bravo ma a parlare sì, vediamoci in un ristorantino che conosco al porto: fanno la migliore caprese del mondo”, ci siamo visti il pomeriggio stesso, non abbiamo parlato tanto perché, dopo il ristorante, siamo andati in un albergo vicino al porto. Abbiamo fatto l’amore. Anzi, tu hai fatto l’amore con me. Siamo stati tante di quelle cose, io e te. Amici, amanti – perché tu avevi una moglie che poi è diventata un’ex moglie ed ora chissà cosa diventerà? – nemici quando durante l’ennesimo litigio mi hai detto “pretendi troppo da me: la tua versione perfetta delle cose mi sconvolge, mi spaventa, mi fa sentire inutile e piccolo.”

Tu parli ed io continuo ad ascoltarti, in silenzio. Parli anche mentre mangi la caprese, mentre il latte della mozzarella ti scivola sul mento e ti  sporca il colletto della camicia. Non te ne accorgi neppure, sei troppo preso dai tuoi successi. Avido quando mangi, avido quando ti racconti. Parli e nei tuoi discorsi ci sono sempre le virgolette, perché tutto quello che dici è importante, è di un certo spessore, è autorevole e perentorio. Io, quando parlo e se parlo, parlo senza virgolette: perché non è necessario che io abbia un’opinione e, seppure dovessi averla, non è detto che tu voglia ascoltarla. Diciamocela tutta, è assai raro che tu voglia ascoltarla. Tu ad ascoltare non sei bravo, non ti è mai importato farlo: perché ascoltare gli altri quando tutto ciò che davvero conta risiede in te? Vorrei dirti che, mentre eri via, ho conosciuto un altro e che mi è piaciuto. Mi è piaciuto come mi ha toccato, come mi ha corteggiato, come mi ha preteso, come mi ha scopato, come mi ha baciato. Mi è piaciuto tutto di quel nostro incontro. Mi è piaciuto così tanto che forse ne vorrò un altro. Non lo so, non l’ho ancora deciso: lui lo vorrebbe, non fa che chiamarmi e mandarmi messaggi per dirmi che, oltre al sesso, di me vorrebbe scoprire altro. Ho pure spento il cellulare mentre il tuo treno arrivava in stazione perchè temevo mi telefonasse ed io arrossisco quando provo a dire una bugia: tu lo sai bene. “Andiamo?”, mi dici. Ti chiedo dove. “In albergo”, mi rispondi. Acconsento silenziosamente e andiamo.

Parli al telefono con un cliente mentre percorriamo il molo, io guardo le navi allontanarsi e scopro in me il desiderio di essere una nave che sparisce nell’orizzonte.

Non sono in grado di dirti che questa cosa tra noi – questa cosa che mi ostino a chiamare amore e che tu neppure ti impegni a definire – non mi rende felice e che forse non mi ha mai reso felice. Probabilmente mi ha reso solo dipendente e succube di te, delle volte in cui mi vuoi e mi trovi, delle volte in cui non mi vuoi e mi offendi, delle altre volte in cui non mi vuoi e corri dalla tua ex moglie per farci chissà cosa: perché, come me, lei non ti dirà mai no e nelle sue parole, come nelle mie, non ci sarà mai un punto esclamativo. Siamo arrivati in albergo, saliti in stanza ed abbiamo fatto l’amore, anzi, tu hai fatto l’amore con me. Come sempre, il solito copione. “Devo andare!”, mi dici. Annuisco, vorrei dirti che anche io ho da fare ma hai già indossato il cappotto e parli al cellulare con un collega. “Ti chiamo!”, mi dici prima di prendere il taxi. L’aria fuori è fredda, forse dentro fa pure più freddo, ma ho voglia di camminare. Senza meta. Accendo il cellulare e leggo un messaggio dell’altro: dice che gli manca la mia voce e che gli manco io. Gli rispondo di cancellare il mio numero, gli scrivo che non mi manca e che non voglio rivederlo. Io amo te, io amo il male che mi fai, amo che non mi ami e amo che, forse un giorno, smetterò di amarti.

E smetterò di amarti non perché ci sarà un altro che mi vuole ma perché sarò io a rivolermi. Nel frattempo, solo tu.