Dalla bocca del Vesuvio si può vedere tutta la città.

Quando l’aria è pulita riesco persino a guardare tra i vicoli, vedo le persone, gli studenti e i lavoratori che camminano veloci, spediti e con un obiettivo; vedo la madre che accompagna il figlio a scuola e che stende i panni; vedo il barbone che s’infila nella grande villa comunale di fronte al mare e cerca un angolo di sole per dormire; vedo i due grandi castelli che si svegliano, aprono le loro porte e finestre, l’uno alla terra e l’altro al mare; vedo la grande piazza scarabocchiata e non posso fare a meno di storcere le labbra al ricordo di com’era prima, quando c’erano i re e le loro corti immense, eleganti e sontuose. Ci sono momenti in cui mi lascio andare ai ricordi dei tempi andati; sento il mondo inveire contro la mia città, continuamente, e mi chiedo sempre (ogni volta) perché criticare soltanto e mai apprezzare invece i suoi lati positivi? Mi ritrovo a sbuffare in modo fastidioso, mi piglio collera jà.
C’è stato un tempo in cui il mio nome era tante cose, leggenda, veritàmito e realtà; ma quei tempi sono andati, e la mia città preferisco guardarla da quassù, e parlare ai suoi abitanti nel sonno, sussurrando nei loro orecchi soluzioni che quasi sempre, al risveglio, dimenticano. Mi sono scelta il Vesuvio perché è il simbolo per eccellenza di questo mio popolo focoso: è un segno di pericolo, un gigante dormiente che si sveglia raramente e quando lo fa non è mai gentile; loro lo tengono sempre presente, ed ogni giorno gli rivolgono un saluto. So per certo che ogni napoletano, da qui alla periferia, volge lo sguardo al suo vulcano almeno una volta al giorno: una traccia di quei riti pagani, a cui ero presente, che è rimasta nascosta nel codice genetico partenopeo. Mi fa sorridere, il mio popolo. Vive all’insegna dell’incertezza, della precarietà continua, ed è per questo che realmente vive: il presente è un quadro vero e proprio, che dipinge ogni giorno, con colori diversi ed uguali, con stili e pennelli completamente differenti dal giorno precedente. Li si accusa così spesso i napoletani: di essere superficiali, poco attenti, imbroglioni, sporchi e cattivi; a me scappa una risata, perché tutte queste accezioni negative appartengono all’intera razza umana, e non soltanto ad un’aria geografica in particolare.
Sono pieni di idee, creatività, di ingegno: l’amore per l’arte, la musica, la danza, il teatro … è nelle loro parole, nelle loro espressioni, nel loro modo di ridere e camminare.  Esplode, come un vulcano, la loro risata e la loro luce: nelle giornate di pioggia, quando me ne sto rannicchiata sulla cima del vulcano, c’è sempre luce nella mia città, e se anche il mare diventa buio, minaccioso e pericoloso, loro ci vedono poesia, bellezza e imponenza. Credo in questo popolo, antico come la terra che calpesta: so che si eleverà ancora, so che prima o poi questo vulcano di energia che si
tiene dentro esploderà. E io sarò qui, ad osservarli, a guidarli se serve, a predire loro quale fuoco alimentare.

 

Io sarò qui, nascosta non più in un antro, ma nella bocca del vulcano.
 
Sibilla